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L’opera d’arte come l’essere umano: un’identità espressiva dotata d’emozioni

Il processo empatico alla base della fruizione artistica: questo quanto emerge da un recentissimo studio svedese

di Miriam Guzzi
Ingar Brinck del Dipartimento di filosofia e scienza cognitiva dell’Università di Lund (Svezia) nello studio Empatia, coinvolgimento, trascinamento: le dinamiche di interazione dell’esperienza estetica, spiega come la fruizione estetica delle immagini e dell’opera d’arte implicherebbe un coinvolgimento empatico che si configurerebbe in una serie di reazioni fisiche nel corpo del fruitore.
(…) l’osservatore di fronte ad un’opera inizierebbe a percepire le proprie sensazioni come se fosse nell’opera stessa
Il termine empatia, nel suo significato filosofico, traduce il tedesco einfühlung (sentire dentro) e deriva dal vocabolo greco empatheia, a sua volta derivato dall’unione della preposizione en (in, dentro) ed il sostantivo pathos (sentimento, passione), ed esprime il concetto di compartecipazione, di sintonia tra due o più individui.
Secondo lo studio di Ingar Brinck l’osservatore di fronte ad un’opera inizierebbe a percepire le proprie sensazioni come se fosse nell’opera stessa. L’immaginazione permetterebbe poi la simulazione del contenuto in sensazioni inizialmente vaghe e successivamente in qualità di forme concrete. Le forme a loro volta causerebbero effetti nello spettatore che, abbinati alla libera associazione di idee, consentirebbero infine l’apprezzamento estetico.
La teoria che l’esperienza estetica implichi l’empatia era stata già sviluppata nel 1873 dal filosofo tedesco Robert Vischer, il quale distinse il processo percettivo del vedere da quello concreto del guardare, “notando come forme particolari suscitassero particolari reazioni emotive, a seconda della loro conformità al disegno e alla funzione dei muscoli corporei” (D. Freedberg, V. Gallese)
…la risposta, negativa o positiva, alla visione dell’opera sarebbe legata ai movimenti compiuti dall’artista durante la sua realizzazione
Analizzare le opere da diversi punti di vista, e più specificatamente da quello dell’autore, della sua mente e della sua sensibilità, è stato possibile quindi grazie alla neuroestetica, area di ricerca che coinvolge estetica e scienze cognitive fondata nel 2001 dal professore di neurobiologia Semir Zeki, attraverso cui sono state indagate le strutture cerebrali e i meccanismi neurali che conciliano l’apprezzamento estetico e la creatività. Questo nuovo ramo della critica d’arte e dell’estetica si occupa di analizzare a livello cerebrale quanto accade non solo nell’artista ma soprattutto nel fruitore nel momento in cui si trova dinanzi ad un’opera.
Oltre alle conoscenze storiche e artistiche, che facilitano la comprensione dell’opera e il suo inserimento in un determinato contesto, anche il cervello attribuirebbe dunque un valore estetico all’opera d’arte richiamando elementi riferibili alle aree motorie. La creazione di un prodotto artistico richiede infatti un’attività motoria, e la risposta, negativa o positiva, alla visione dell’opera sarebbe legata ai movimenti compiuti dall’artista durante la sua realizzazione.
La cosiddetta simulazione incarnata (…) non si sofferma su cosa sia l’arte in sé, ma sulla conoscenza psicofisica e neurocognitiva della parte visiva del cervello
Per comprendere questa associazione, ci si è soffermati sui neuroni a specchio, cellule del sistema nervoso che permettono di spiegare dal punto di vista fisiologico l’empatia, la capacità di intuire le intenzioni o le emozioni altrui dai gesti del loro corpo o dagli atteggiamenti del loro viso. È il caso del dripping, tecnica pittorica consistente nel lasciar gocciolare i colori dall’alto sulla tela stesa per terra, in modo da realizzare macchie o linee apparentemente casuali, adottata, a partire dal 1946, dal pittore americano Jackson Pollock (1912-1956); è il caso, anche, dei tagli effettuati sulle tele da Lucio Fontana (1899 -1968).

Il corpo del fruitore, di fronte a opere figurative o a opere che mettono in evidenza il gesto creatore dell’artista, reagisce quindi come se avesse compiuto lui stesso i movimenti necessari alla creazione. La cosiddetta simulazione incarnata, che mette in rilievo il concetto più ampio di empatia, non si sofferma su cosa sia l’arte in sé, ma sulla conoscenza psicofisica e neurocognitiva della parte visiva del cervello, e simula mentalmente il processo che l’artista ha compiuto per creare l’opera.
L’approccio empatico permetterebbe quindi di percepire l’opera d’arte non più come oggetto da contemplare e/o valutare, realizzato per comunicare qualcosa e sopravvivere nel tempo, ma anche come un’identità espressiva simile all’essere umano e dotata di personalità, emotività e sensazioni.